A circa quindici chilometri dalla città arabeggiante di Pierro, troviamo Valsinni.
Questo centro, famoso per aver dato i natali ad Isabella Morra, fino al 1873 veniva chiamata Favale cioè "terra ricca di sorgenti", si trova ad un'altitudine di 250 m s.l.m., su un'altura che domina la valle del Sinni, il cui corso proprio nel tratto a valle dell'abitato procede incassato tra suggestive rupi. Lo scorrere del fiume, che in passato caratterizzava con il suo rumore pacato e continuo il paesaggio del piccolo centro, è dal 1985 fortemente diminuito perché le acque sono imbrigliate dalla diga di Monte Cotugno, che rifornisce di acqua buona parte della provincia di Matera e della Puglia.
Il luogo dove sorge Valsinni è uno tra quelli ritenuti più probabili come luogo dove sorgeva l'antica città della Magna Grecia Lagaria.
Nel 1528 il feudo di Gian Michele Morra, padre della poetessa Isabella Morra, passò sotto la Corona di Spagna in seguito alla sconfitta delle truppe di Francesco I di Francia nei confronti di Carlo V, ed il Morra, che appoggiava il re francese, fu costretto ad emigrare a Parigi insieme a suo figlio Scipione. Sua moglie e gli altri figli, tra cui Isabella molto legata al padre, invece restarono a Favale, nel castello che ancora oggi domina la parte antica del borgo. Così l'antica Favale fu teatro della tragica storia di Isabella Morra, giovane ed illustre poetessa petrarchista uccisa dai fratelli a soli 26 anni dopo che questi ultimi scoprirono la sua relazione epistolare con il poeta spagnolo Diego Sandoval de Castro, barone di Bollita.
La parte antica di Valsinni (il Borgo) è stretta intorno al castello e non è accessibile alle automobili. È costituita da abitazioni vecchie di secoli accostate l'una all'altra e separate da strette vie che si inerpicano sui fianchi dello sperone roccioso su cui è edificato il paese. Poiché sono presenti spesso dislivelli di alcuni metri nell'ambito di una stessa abitazione, molte case hanno come accesso o punto di transito tra due vie un gafio, cioè un passaggio coperto in pietra che passa sotto un'abitazione.
Il castello di Valsinni è posto sul punto più alto del borgo antico, i cui vicoli si snodano in file concentriche e sovrapposte ai suoi piedi, e domina la valle del Sinni. Di aspetto aragonese ma già esistente in epoca medioevale, infatti fu presumibilmente edificato su una preesistente fortificazione longobarda. Sono ancora conservati opere, documenti e scritti testimonianti la vicenda esistenziale e la solitudine della poetessa che lì visse.
Proprio intorno alla figura di Isabella Morra si sviluppa uno degli eventi estivi più importanti dell’area denominato “L’estate di Isabella” con rappresentazioni teatrali, degustazioni di prodotti tipici e sano divertimento.
Di rimpetto alla città di Isabella Morra, troviamo Colobraro.
Cittadina dell'Appennino lucano nella valle del fiume Sinni, Colobraro sorge sulle pendici meridionali del Monte Calvario a 630 m s.l.m., arroccato su uno sprone dal quale domina da sinistra un ampio tratto della valle.
Il paese si trova non lontano dal bacino artificiale formato dalla diga in terra battuta più grande d’Europa costruita sul fiume Sinni tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta in prossimità della stretta di Monte Cotugno da cui prende il nome.
Punto saliente dell’intero nucleo abitativo colobrarese è senza dubbio il castello.
Esso è ubicato a quota 665 mt e si rapporta a Sud-Ovest con il centro storico del paese, mentre a Nord-Est volge sul pendio della roccia su cui sorge e verso l'esteso panorama della valle del Sinni (compreso l'invaso di Monte Cotugno).
Da qui su si gode un panorama mozzafiato, unico ed irripetibile: Monte Coppolo, il Centro storico di Valsinni, la Rabatana di Tursi, il Golfo di Taranto, la costiera Jonica e tutto il Massiccio del Pollino.
Il Castello avrebbe visto la sua costruzione a partire dall'804, tuttavia secondo altri bisogna far risalire la costruzione al 1013 al 1052. Più attendibili sono i dati relativi alla struttura interna ed esterna del Castello, che conteneva oltre 40 vani al primo piano e vastissimi magazzini al piano terra, oltre le scuderie, che ne facevano uno dei più grandi manieri del territorio.
Colobraro è famoso in tutta Italia per essere il comune “senza nome” o “innominabile”.
Sulle origini della cattiva nomea di Colobraro le credenze si alternano a fatti storici realmente documentati, che hanno contribuito ad accrescere la fama negativa di “quel paese”.
Si racconta che negli anni Trenta il podestà, alla fine di un comizio, con l’intento di risultare assai credibile, disse che, se non avesse detto la verità, in quel momento un lampadario sarebbe caduto. E, in effetti, pare che un lampadario sia caduto davvero, c’è chi dice davanti a molti testimoni e ferendo anche qualcuno, secondo altri in una stanza vuota. Le prove dell'episodio, comunque, non ci sono.
Ad alimentare queste credenze si aggiunse in seguito l’importante contributo di Ernesto De Martino, l’antropologo napoletano autore del saggio Sud e magia, a cui va il merito di aver studiato e fatto conoscere i fenomeni – oggi molto noti – del tarantismo, della magia popolare e di tutto il patrimonio di falsi miti su cui si fonda la superstizione.
Lo studioso durante gli anni Cinquanta visitò il Meridione, dalla Calabria alla Puglia, e fece tappa anche a Colobraro, prima nel 1952 e una seconda volta nel ’54, registrando e confermando episodi sfortunati di cui era rimasto vittima. E se lo diceva De Martino, bisognava crederci.
Poco più di mille anime arroccate su un colle che domina la valle del fiume Sinni, Colobraro sta dunque vivendo, ormai da anni, una ritrovata vitalità: ogni martedì e venerdì di agosto (la scelta dei giorni non è casuale) le stradine del borgo si popolano di centinaia di visitatori che, accompagnati in un ideale viaggio nel tempo fino agli anni della Prima guerra mondiale, ripercorrono alcune vicende legate a immaginari personaggi locali grazie all’evento “Sogno di una notte a quel Paese”.
Scoprono così la potenza guaritrice dell’affascino (una preghiera che toglie il malocchio), recitato dalla cosiddetta “masciara”, un’autentica fattucchiera che nulla ha da invidiare alle streghe.
Le masciare, abili conoscitrici delle arti magiche, erano temute e rispettate per le conseguenze negative che sarebbero derivate da uno sgarbo ricevuto, o anche solo un’occhiata non gradita. Altra presenza tipica di Colobraro sono i “monachicchi”, le anime dei giovani defunti, un po’ bambini un pò folletti, che si divertono a fare dispetti e a visitare i superstiziosi nelle ore notturne, appollaiandosi sulle loro pance durante il sonno.
Oggi Colobraro sembra aver perso quell’aura negativa che l’ha avvolto per molti anni e, se così tanti visitatori vanno a scoprirlo, il merito è soprattutto dei suoi ingegnosi abitanti, che hanno dimostrato come si può scherzare, e al tempo stesso fare cultura, sfruttando la cattiva fama di cui gode(va) il proprio paese.
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